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24/02/2015 11:15 CET | Aggiornato 26/04/2015 11:12 CEST

Gli anglicismi minacciano l'italiano? Quattro chiacchiere con Luca Serianni

Vent'anni fa ero più ottimista riguardo alla questione degli anglicismi: ritenevo che il prestito fosse un problema fisiologico e che il tasso di parole inglesi non adattate non fosse così alto. Adesso vedo che il numero comincia veramente a essere un po' invadente, soprattutto rispetto alla capacità di metabolizzazione.

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Vent'anni fa ero sicuramente più ottimista riguardo alla questione degli anglicismi: ritenevo che il prestito fosse un problema fisiologico e che il tasso di parole inglesi non adattate - le uniche di cui ci si debba preoccupare - non fosse così alto. Adesso vedo che il numero comincia veramente a essere un po' invadente, soprattutto rispetto alla capacità di metabolizzazione delle lingue romanze con cui possiamo direttamente confrontarci, cioè il francese e lo spagnolo

Luca Serianni è professore ordinario di Storia della lingua italiana all'università La Sapienza di Roma. Autore delle Lezioni di grammatica storica italiana - croce e delizia di ogni studente di Lettere -, è socio dell'antica e prestigiosa Accademia della Crusca. Ed è destinatario, insieme ad altri, dell'appello lanciato su Change.org dalla pubblicitaria Annamaria Testa, perché politica e giornali parlino un po' di più in italiano. Lo conosco da diversi anni, dai tempi, appunto, dell'università: ho avuto la fortuna di essere sua allieva e di laurearmi con lui nella sua materia. Da Serianni ho imparato moltissimo, più di quanto possa sperare di ricordare. Un insegnamento, però, il più prezioso di tutti, non potrò mai dimenticarlo: l'amore per la nostra lingua. È dunque la prima persona che ho voglia di sentire per capire come se la passa l'italiano, invaso com'è da termini inglesi (o pseudo tali). "Il problema effettivamente si pone", mi dice, senza definirsi, però, 'preoccupato', e preferendo a 'pessimista' un più tenue 'meno ottimista'.

Se c'è un problema, allora, è necessario intervenire?

Non certo in termini dirigistici. Nel senso che non sarebbe neanche pensabile che un ente, a partire dalla Crusca, dicesse 'non dovete usare tale parola'. Quello che secondo me si potrebbe fare è intervenire attraverso un'opera di persuasione nei confronti di quelle istituzioni che per la ricaduta delle loro scelte nella società hanno particolare responsabilità. In particolare tutte le istituzioni politiche. Non si può impedire a Matteo Renzi di parlare di 'Jobs act', tuttavia gli si può far capire che trattandosi di un progetto del governo italiano l'utilizzo dell'inglese - una scelta che probabilmente non è neanche pubblicitariamente vincente - non è la cosa migliore. D'altra parte vedo che anche i giornalisti tendono a ironizzare su questa incidenza. Ho qui un appunto di un intervento di Beppe Severgnini, che è un grande ammiratore e sostenitore della cultura anglosassone. Commentando il fatto che da giorni si parla di 'quantitative easing' per dire 'immissione di liquidità', Severgnini scrive:

E poiché non era abbastanza criptico, usiamo la sigla QE, fino a ieri una nave da crociera (Queen Elisabeth, Cunard Lines). Chiedete sul tram, al mattino presto, cosa pensano del 'chiu i' (si pronuncia così). Se vi schiaffeggiano, avranno una riduzione di pena.

Sono segni di ironia, naturalmente, che mostrano però come l'anglicismo ostentato non favorisca in realtà l'internazionalizzazione, ma affermi, semmai, una sorta di provincialismo

Insomma, un tempo c'era il burocratese, e le persone non capivano. Oggi abbiamo l'itanglese e l'effetto sembrerebbe lo stesso. Possiamo paragonare questi due linguaggi?

Il burocratese ormai da un po' di tempo non è più il linguaggio della politica, quando i politici si rivolgono ai cittadini. C'è anzi un modello di comunicazione fortemente incardinato sul parlato. Il politico tende a presentarsi come uno di noi, come uno dei cittadini, ed evita il linguaggio burocratico. Certamente, però, usa un linguaggio che potremmo definire tendenzialmente aziendalistico, in cui l'inglese è molto presente. E il rischio è quello di un effetto di straniamento, tutto sommato analogo al vecchio politichese della cosiddetta Prima Repubblica.

L'italiano è una lingua maltrattata?

Forse si dicono spesso cose che non sono confermate dai fatti. Per esempio che i giornali sono scritti male. Non è vero. La riflessione di fondo che farei è che il problema oggi, forse, non viene più sentito per effetto di un dato certamente positivo rispetto a 50 anni fa: cioè che l'italiano è obiettivamente una lingua condivisa come lingua parlata. I dialetti sono marginali, e comunque sono scelte alternative non sostitutive dell'italiano, e quindi il problema non viene particolarmente avvertito, per effetto di una situazione che, confrontata con il recente passato, è addirittura positiva.

Ritorno alla petizione lanciata da Annamaria Testa. La Crusca può intervenire, chiedendo alla politica e ai media di usare un po' di più l'italiano?

Sì, secondo me può intervenire in questa chiave: evitare un intervento dirigistico e agire come organo di consulenza. Come organo certamente autorevole, carico di storia e con un particolare titolo. D'altra parte c'è un dato molto importante che vorrei sottolineare: e cioè che l'appello viene proprio da una grande esperta di pubblicità, da una figura non 'cruscante' come Annamaria Testa. E quindi vuol dire che la questione non è un problema sentito solo da 'parrucconi', da eruditi di un ristretto cerchio, ma da una personalità che per definizione, per il lavoro che fa, è aperta al mondo: la pubblicità è ovviamente transnazionale. Quindi il fatto che la petizione sia partita da Testa dovrebbe farci riflettere: è molto significativo che sia stata lei a promuoverla. E quindi sì, penso che la Crusca farebbe bene a raccogliere il suo appello in questa direzione.

Saluto Serianni chiedendogli di azzardare una previsione: a cosa andiamo incontro, a una contaminazione sempre maggiore o a un plurilinguismo capace di rispettare le diversità? Mi risponde che le previsioni sono sempre difficili e che le lingue non fanno eccezione. Ha ragione. "Sono due scenari entrambi plausibili: dipendono dalla reattività delle comunità linguistiche, più in generale delle comunità sociali. Una reattività che è assolutamente difficile immaginare in quale parte vada". Prima di dirgli 'arrivederci', gli chiedo di togliermi un'ultima curiosità.

Professore, lei fa uso di anglicismi?

No! Proprio no! (ride) Non ne faccio e forse non ne farei comunque, perché un minimo di attenzione alla lingua italiana - dato il mestiere che faccio io - lo devo comunque praticare.